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Il milanese Fabio Massimo Ulivieri è un illustre clinico con la passione della pittura o, per meglio dire, dotato di interessi storici e filosofici legati alla pittura, la cui pratica non costituisce un otium nel senso ciceroniano del termine ma un complemento esistenziale. Come ogni persona sensibile ed intelligente, Ulivieri non si limita a prendere atto tout court che la sorte ha voluto che nascesse nel capoluogo lombardo. Vuole comprendere quale sia il suo grado di coinvolgimento nella realtà in cui si trova a vivere e una volta intrapresa tale indagine desidera comunicarne il risultato ad altri e per farlo ha scelto il tramite della pittura. Ne deriva un complesso insieme di dati al contempo estetici e filosofici e l’inedita ricerca di coinvolgimento da parte dei riguardanti.

Cos’è una grande città, si è chiesto Ulivieri; e come suo cittadino, come posso rappresentarla? La prima risposta è che si tratta di uno spazio nel quale il tempo non conta poiché vi convivono in assoluta armonia l’antico e il contemporaneo; e allora s’impone una considerazione e cioè che è più importante la componente di lunga durata, ovvero i grandi monumenti storici. Convincimento che lo ha portato a trasformare Milano in una dannunziana Città del silenzio. Da ciò nasce la seconda risposta, ovvero la necessità di dar vita ad una espressione pittorica capace di assolvere il compito memoriale. La mentalità speculativa del medico milanese ha accettato l’idea di dar vita ad una produzione di carattere architettonico e infatti gli scorci urbani di Ulivieri hanno la stessa impronta di Masaccio con la fondamentale differenza che mentre questi recano sulla tavola la loro piena volumetria, quelli della ricerca milanese costituiscono una raffigurazione simbolica. La loro valenza simbolica sta in due fattori, i colori, ad esempio il bianco che sottolinea la sacralità del Duomo, provenienti da una parca tavolozza e il fatto di disegnare sempre una parte per il tutto. Rappresentare il Duomo nella sua piena evidenza avrebbe significato proporre una realtà che tutti possono vedere ogni giorno, mentre proporre una bifora per suscitare il ricordo dell’intera sacra costruzione ha un valore ben diverso, ovvero quello di trasformare un elemento visivo in una acquisizione spirituale.

Aedo di Milano, Ulivieri ha iniziato il suo rapporto con le vestigia della città nel 1988 ed ha sviluppato quattro nuclei d’interesse: la Ca’ Granda, il Duomo, il Castello e ″L’ultima cena″ di Leonardo da Vinci, l’unico ciclo nel quale i valori pittorici prevalgono sui simboli architettonici. I vari progetti hanno avuto un andamento cronologico discontinuo e per il momento la loro produzione si è arrestata al 2014.

La Ca’ Granda, attualmente sede dell’Università, e il Castello hanno avuto, prima di entrare nel mondo dei filosofici assunti di Ulivieri e del suo spirito poetico, fatto di grazia e di umiltà, gli stessi demiurghi, il nuovo duca di Milano Francesco Sforza e l’architetto fiorentino Filarete, intervenuto marginalmente anche nella fabbrica del Duomo e considerato dai Medici, che lo raccomandarono, il più aggiornato costruttore del tempo. In realtà Filarete non concluse nessuna delle due immense costruzioni, ma lasciò una traccia profonda nei propri successori e il proprio nome alla torre principale del Castello, ai tempi la più imponente costruzione militare d’Europa. Ma non la storia del Castello fatto ricostruire da Francesco Sforza dopo l’effimera stagione dell’Aurea Repubblica Ambrosiana sulle rovine viscontee ha interessato Ulivieri, bensì il suo valore in quanto testimone della passata gloria di Milano e più ancòra del memore significato che le sue quadrate mura recano del tempo in cui la potenza dei pochi si riversava oppressiva sui molti. Con commozione Ulivieri conferisce ai resti del Castello da lui delineati il senso della gloria che non sa distinguersi dal lenocinio della forza e dalla brutalità di tempi calamitosi e forse è idealmente al fianco dei cittadini che più volte tentarono di abbattere quel testimone di profonde sofferenze. Oggi, nelle luminose tele del medico meneghino permangono insieme un furor d’antichi torti e la celebrazione di anni politicamente gloriosi, gli ultimi vissuti dall’Italia prima che fosse corsa dalle armate francesi e dalle truppe spagnole.

Con il grande ospitale Francesco Sforza, capitano di ventura, legittimato come duca dalle nozze con l’ultima esponente dei Visconti, Bianca Maria, figlia illegittima ma riconosciuta di Filippo Maria, donna d’intelletto e di spada, avviò una grande operazione di captatio benevolentiae per assicurarsi considerazione e fedeltà da parte dei suoi nuovi sudditi. Rilevante è il fatto che Ulivieri nello scegliere i brani da proporre, nelle sue tele abbia scelto solo quelli dovuti alla parte costruita dal Filarete, distrutta dai bombardamenti alleati nel 1943 ma ricostruita con esemplare restauro utilizzando materiale originario. I delicati particolari proposti dal pittore recano nella loro figura e nel parco colore che li illustra chiara memoria dell’ospedale medievale, un luogo che divenne modello di molte altre analoghe realizzazioni nell’Italia settentrionale e nel quale, per dirla con Carducci, «albergò tanto dolore», una sofferenza di cui l’animo di una persona dalla profonda sensibilità di uomo e di medico avverte tutta la secolare portata.

Il Duomo di Milano, dedicato a Santa Maria Nascente, è la chiesa più grande d’Italia, la quarta fra le maggiori testimonianze religiose d’Europa, e rispondeva alle ambizioni del duca Gian Galeazzo Visconti, che ne volle esaltare la magnificenza per farne il centro sacrale dell’Italia unita che sognò invano di realizzare, auspice l’aurea Madonnina che splende e benedice ad oltre centro metri dal suolo. Il disegno magnanimo del duca sembra aver ispirato Ulivieri, che fra le tele dedicate alla ″Resurrezione del Duomo″, una ne dedica proprio alla santa protettrice di Milano con suprema eleganza di dettato, facendo risplendere la piccola statua sul bianco incontaminato della tela.

Giunti quasi al termine dell’esegesi dell’opera di Ulivieri vale la pena di citare il più profondo dei suoi interpreti, Pedro Fiori, il quale, riferendosi a questi primi tre capitoli della Mitografia di Milano, il titolo complessivo della sua grande opera, ricorda come «l’epifania [gli scarni lacerti d’immagine delineati dal medico sulle sue tele] del mito» ha sempre rappresentato una verità in fieri, legata alla «conoscenza irrazionale». In realtà l’autore non reca nulla d’irrazionale nella sua produzione poiché offre una lucida chiave d’accesso alla sacralità e alla monumentalità di Milano. Fiori però si corregge citando Cassirer secondo il quale caratteristica fondamentale del pensiero mitico è la mancanza di distinzione fra il simbolo e l’oggetto cui si riferisce. Infatti i pochi tratti delineati da Ulivieri accennano agli edifici, miti e simboli della sua città, in maniera meditata, ma allo scopo di rievocare il mito di una passata grandezza    che riguarda i destinatari delle sue opere. Opportunamente Fiori conclude la sua disamina definendo ogni frammento del mito una «realtà totalizzante» capace di determinare la «presenza dell’assenza».

L’ultima parte della Mitografia di Milano differisce dalle precedenti per un maggior impegno a fornire una visione d’insieme del capolavoro leonardesco invece di limitarsi ad un accenno identificante. Realizzata durante l’ultimo scorcio del Quattrocento, L’ultima cena, dipinta su un muro esposto a settentrione e prospiciente il refettorio di Santa Maria delle Grazie, la chiesa che Ludovico il Moro aveva scelto a celebrazione del suo casato, creò sin dall’inizio severi problemi di conservazione, tanto che lo stesso Leonardo ebbe modo di rendersene conto. La ″Resurrezione″ spirituale di cui parla Ulivieri ha così finito per confondersi con la ventennale operazione di restauro che ha consentito di salvare quanto possibile di un’opera da sempre considerata uno dei più significativi esiti della pittura rinascimentale. Ulivieri non ha però tenuto conto di questo paziente lavoro e ha dato forma solo alla giovannea figura centrale del Cristo con ai due lati le esigue silhouettes degli altri commensali con la sola eccezione di una massa color rosso, che identifica Giuda. L’impianto concettuale proposto nel quadro rivela l’intenzione dell’autore di conferire la massima visibilità a Giuda, colorato in rosso, il colore della vergogna e del sangue, in modo da escludere tutti gli altri commensali e mettere in scena solo il dramma del tradimento. Alla serenità del Cristo, che in questa visione non è la figura centrale, si contrappone il tormento del traditore che ha perduto la propria individualità e sopravvive momentaneamente, in un indistinto grumo di colore, a se stesso e al peccato commesso prima di sparire per sempre dal mondo e dalla comunità dei giusti.

Alcuni hanno voluto vedere nella pittura di Ulivieri un generale elemento di mistero, che a noi pare esistere solo nelle tele dedicate all’ultima tappa della tetralogia milanese. A dire il vero, sotto il pennello del medico filosofo pare emergere non tanto il mistero ma un profondo senso di sacralità, di imminente epifania del Cielo, di una tematica da Sacro Graal in un’atmosfera d’attesa che grava sull’insieme.

Con tale tocco espressionistico Fabio Massimo Ulivieri si congeda per il momento dal suo grandioso omaggio alla gloria di Milano, città che allo stesso Napoleone parve degna di rivaleggiare con Parigi.

Aldo Maria Pero